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Monsignor Galantino, ‘una sfida vinta contro cultura dello scarto’

Roma, 3 lug. (Adnkronos Salute) – La mission apparentemente impossibile di trattare i disturbi da alcol negli homeless è invece fattibilissima. Ma fino a oggi non esistevano dati in letteratura su questo argomento che riguarda gli ‘ultimi degli ultimi’, anche perché nessuno dà loro una chance di riabilitarsi e di integrarsi. Nonostante le potenzialità ci siano tutte. E lo dimostra uno studio, appena pubblicato su ‘Alcohol and Alcoholism’, condotto dal gruppo di Giovanni Addolorato, responsabile dell’Unità di medicina interna e patologie alcol-correlate, della Fondazione policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma, che opera all’interno del Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche del Gemelli, diretto da Antonio Gasbarrini.

“Il progetto di lavorare con i pazienti più fragili, quelli senza fissa dimora – ricorda Addolorato – parte da lontano quando, in occasione dell’apertura della Villetta della Misercordia, Gianna Iasilli, dipendente del Gemelli e volontaria della Comunità di Sant’Egidio, nonché responsabile di questa struttura, nata dalla collaborazione tra la Comunità di Sant’Egidio, il Policlinico Gemelli, l’università Cattolica del Sacro Cuore e l’Istituto Toniolo di Studi Superiori, venne a chiedermi una mano come medico per aiutare queste persone che, tra i tanti problemi, hanno anche quello dell’abuso di alcol. Abbiamo aderito subito all’iniziativa – racconta – anche se avevamo qualche dubbio sul reale impatto che il trattamento avrebbe potuto avere su persone che vivevano per strada”.

In quell’occasione, continua il medico, “abbiamo però sentito l’obbligo morale di provarci, anche perché questo è parte della mission del Gemelli, un ospedale ‘diverso’, con un ruolo aggiuntivo e un valore aggiunto, quello di farci carico delle persone più fragili. Il direttore generale del Gemelli, Marco Elefanti, non ha avuto esitazioni nell’appoggiare pienamente questo progetto”. Un progetto senza pregiudizi insomma, “come dimostra anche la sezione ‘materiali e metodi’ del lavoro: la voce ‘criteri d’esclusione’ è vuota. C’è stato spazio per tutti a prescindere da età, genere, credo religioso”.

Per la prima parte del trattamento, i pazienti arruolati nello studio venivano ricoverati in reparto, per gestire meglio la fase acuta, sottoporli a esami per quantificare i danni fatti dall’alcol, trattare la sindrome d’astinenza e le patologie alcol-correlate. Alla dimissione, alcuni di loro sono stati accolti nella Villetta, mentre agli altri sono state offerte delle soluzioni abitative alternative. Tutti sono stati quindi seguiti in ambulatorio per circa un anno.

“E i risultati di questo esperimento medico-sociale rimuovono il pregiudizio – afferma Addolorato – che queste persone non siano recuperabili. Una quota importante di questi pazienti, infatti, è riuscita a ridurre in maniera significativa l’abuso di alcol. Questo studio, ora pubblicato su una rivista scientifica internazionale, toglie dunque qualsiasi alibi a chi ritenga che trattare un disturbo di abuso di alcol in un homeless sia un’utopia. Abbiamo dimostrato non solo che è fattibile, ma che ha un impatto davvero importante perché, a parità di quantità di alcol assunta, un paziente che vive per strada, muore di più”.

“Il nostro Dipartimento ha voluto fortemente sostenere questo progetto afferma Antonio Gasbarrini – in quanto sappiamo bene quanto l’alcolismo sia solo il sintomo di profonde sofferenze interiori che, se non risolte, non porteranno mai una possibilità di cura efficace. Tra le mille sfide ipertecnologiche che vinciamo ogni anno nessuna ci ha dato più soddisfazione di questa e siamo fieri di averci creduto da subito. La rotta è stata tracciata. Ora – conclude – dobbiamo percorrerla coinvolgendo soprattutto studenti e specializzandi, i medici del futuro che dovranno avere quel quid in più, segno distintivo dei medici della Cattolica”.

Secondo Monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), “è stata vinta una sfida contro la cultura dello scarto. Lo studio dimostra che – quello che poteva sembrare l’auspicio di un inguaribile ottimista o essere solo il segno della fiducia riposta in donne, uomini e strutture che interpretano in maniera competente e appassionata la loro mission – è invece possibile. Possibile grazie alla sfida accettata in un clima socio-culturale, come il nostro, sempre più incline a creare ‘scarti’ e a disfarsi senza scrupoli di ciò che non risponde a canoni condivisi.I risultati ottenuti, documentati scientificamente e riconosciuti – conclude – rappresentano un valore aggiunto per tutti”.