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Cavernomi cerebrali: possibile una terapia farmacologica alternativa alla neurochirurgia

Identificato per la prima volta da un team di scienziati dell’IFOM e dell’Università degli Studi di Milano un possibile approccio terapeutico per curare i cavernomi cerebrali, una malformazione congenita o sporadica che può dare origine a emorragie cerebrali ed è fino ad oggi curabile solo tramite asportazione neurochirurgica.

La scoperta, pubblicata oggi su Nature, individua in una terapia antiinfiammatoria e antitumorale la possibile cura per questa patologia poco nota ma molto meno rara di quanto si immagini: ne sono potenzialmente affette almeno una persona su 500.

 Si tratta di una malformazione dei vasi cerebrali, familiare o sporadica, caratterizzata dalla formazione di agglomerati di vasi sanguigni abnormemente dilatati e fragili, chiamati “caverne”, che possono manifestarsi con emorragie intracerebrali, deficit neurologici, crisi epilettiche e mal di testa ricorrenti.

Dalla forma simile a un lampone, i cavernomi cerebrali sono costituiti da un fitto agglomerato di bolle gonfie di sangue e rivestite da una parete endoteliale estremamente sottile e fragile. La serietà e la tipologia dei sintomi dipende sia dalla sede del cervello in cui si trova il cavernoma sia dalla sua dimensione, che va  da pochi millimetri a diversi centimetri. Il numero di lesioni può variare da uno, nei casi di tipologia sporadica, ad alcune decine, nel caso di tipologia ereditaria.

Si stima che la probabilità di sviluppare cavernomi cerebrali riguardi più di una persona su 500, ma nella maggior parte dei casi (70-80%) possono rimanere silenti anche per tutta la vita, senza dare alcun sintomo. La matrice della malformazione può essere sporadica-  e cioè presente in un solo individuo e non nei suoi familiari,  –  o ereditaria, con una modalità di trasmissione autosomica dominante.  Che sia presente dalla nascita o si origini nel corso della vita, la malformazione  presenta sintomi clinici prevalentemente in età adulta, dopo i 20 anni. Se non vi sono evidenze di carattere ereditario, i cavernomi cerebrali sono difficilmente diagnosticabili e spesso vengono scoperti in modo fortuito, nel corso di indagini effettuate per altri motivi. I sintomi difatti non sono specifici e possono essere riconducibili ad altre patologie cerebrali.

Una volta effettuata la diagnosi tramite risonanza magnetica, l’unico trattamento oggi possibile per curare i cavernomi cerebrali è rappresentato dalla rimozione chirurgica tramite craniotomia, che si rende necessaria solo se sono sintomatici o in espansione.

Pur essendo sempre più sicura grazie alle metodiche di precisione della microchirurgia, la rimozione neurochirurgica può risultere critica: questo soprattutto  se il paziente è un bambino o se il cavernoma è ubicato in un’area cerebrale delicata o nel midollo spinale, perché l’intervento rischia di provocare danni alle strutture cerebrali sane circostanti.

Una conoscenza più approfondita dei meccanismi molecolari alla base della formazione dei cavernomi sembra indicare la via per approcci terapeutici alternativi alla chirurgia, meno invasivi e più risolutivi.

E’ già noto che la malformazione cavernosa cerebrale è causata, dalla assenza di una delle tre proteine che formano il complesso CCM ( Cerebral Cavernous Malformation) e che sono codificate  da  tre geni chiamati CCM1, CCM2 o CCM3. Ma fino ad oggi molte questioni rimanevano ancora irrisolte: quali fattori molecolari originano la patologia? Quali sono i meccanismi di alterazione che intervengono nello sviluppo abnorme dei vasi sanguigni?

Un contributo che segna un passo decisivo sia nella direzione della conoscenza molecolare delle Malformazioni Cavernose Cerebrali sia nell’individuazione di una loro cura viene da una ricerca pubblicata oggi sull’autorevole rivista scientifica Nature e condotta nei laboratori dell’IFOM di Milano da Elisabetta Dejana, ricercatrice che si è distinta negli ultimi anni per i suoi contributi sulla comprensione dei meccanismi che regolano lo sviluppo del sistema vascolare nei tumori

“Il cavernoma è di fatto assimilabile a un tumore benigno, in cui la moltiplicazione incontrollata e progressiva delle cellule del tessuto rimane circoscritta a una determinata area.” spiega Elisabetta Dejana, responsabile del programma di ricerca IFOM Il sistema vascolare del cancro e professore ordinario di Patologia Generale nel Dipartimento di Bioscienze all’Università degli Studi di Milano. “Come nei tumori, le cellule endoteliali si trasformano e diventano più mobili ed invasive, andando incontro ad  una crescita vascolare incontrollata che porta allo sviluppo e l’espansione dei cavernomi.”

“Abbiamo concentrato le nostre ricerche sul gene CCM1, responsabile del 40% dell’insorgenza di cavernomi – continua la ricercatrice – e abbiamo osservato che l’inattivazione di questo gene comportava nella cellula endoteliale la perdita delle sue caratteristiche funzionali specifiche e la trasformazione in cellula mesenchimale.” Questo processo, noto come “transizione endotelio-mesenchimale”, è tipico nei tumori e in altre patologie infiammatorie, in cui le cellule endoteliali acquisiscono elevate proprietà migratorie ed invasive.

“Nei cavernomi – Spiegano Luigi Maddaluno e Noemi Rudini, i due primi autori dello studio  – abbiamo notato che questo cambio di funzione è mediato da due fattori cruciali proprio in molte patologie infiammatorie e nei tumori: BMP6 (bone morphogenetic protein 6) e TGF-ß (transforming growth factor beta). In assenza di CCM1, le cellule endoteliali producono in misura abnorme BMP6 e sono più sensibili a TGF-ß – presente in concentrazioni elevate nel cervello – acquisendo così proprietà mesenchimali. Abbiamo quindi sperimentato l’impiego di inibitori di BMP6 o di TGF-ß ed abbiamo osservato una riduzione molto significativa dello sviluppo delle lesioni vascolari cerebrali.”

Questi farmaci sono già esistenti e sono attualmente allo studio per bloccare la proliferazione tumorale o  altre patologie infiammatorie. La scoperta apre quindi le porte a possibili applicazioni terapeutiche non troppo lontane dalla pratica clinica: “Aver individuato un approccio terapeutico alternativo alla neurochirurgia – afferma Dejana – è una svolta importante per la ricerca ma soprattutto per i pazienti.” Non è infatti infrequente che i cavernomi si sviluppino nei bambini dove la chirurgia può provocare danni allo sviluppo cerebrale o in pazienti adulti dove non si può intervenire chirurgicamente  perchè la lesione è di difficile accesso.  

“confidiamo adesso – conclude la ricercatrice – di poter avere il supporto necessario per avviare uno studio clinico preliminare.”.

La ricerca condotta da Dejana è è stata sostenuta da finanziamenti dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC) e dei altri Enti tra cui la Fondation Leducq, un’organizzazione impegnata nella ricerca sulle malattie cardiovascolari.

  Dettagli editoriali

Titolo: ‘EndMT contributes to the onset and progression of cerebral cavernous malformations’

Data di pubblicazione: Nature, 9 giugno 2013

DOI 10.1038/nature12207

Autori: Luigi Maddaluno, Noemi Rudini, Roberto Cuttano, Luca Bravi, Costanza Giampietro, Monica Corada, Luca Ferrarini, Fabrizio Orsenigo, Eleanna Papa, Gwenola Boulday, Elisabeth Tournier-Lasserve, Françoise Chapon, Cristina Richichi, Saverio Francesco Retta, Maria Grazia Lampugnani & Elisabetta Dejana