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Ictus e fibrillazione atriale: Sud penalizzato nell’accesso alle nuove terapie anticoagulanti

cuore_battito_ok_054207Scarsa percezione, anche nella classe medica, della relazione tra fibrillazione atriale e ictus; forte diseguaglianza nell’accesso alle terapie che possono prevenirlo tra Nord e Sud Italia, e sottoutilizzo dei farmaci anticoagulanti, più sicuri e maneggevoli, con un mancato risparmio di 230 milioni di euro l’anno per il SSN, a causa di poco oculata gestione della spesa sanitaria e ostacoli normativi; sono alcuni importanti aspetti che emergono da un documento di prossima pubblicazione, frutto dell’ultimo dibattito tra sedici esperti tra le più importanti società scientifiche, associazioni pazienti, enti regionali, esperti del settore e farmacoeconomisti, il più grande tavolo interdisciplinare sul tema, realizzato con il coordinamento del prof Francesco Perticone, PO di Medicina Interna presso l’Università Magna Grecia di Catanzaro e Presidente della SIMI (Società Italiana di Medicina Interna) e grazie al contributo incondizionato di Daiichi Sankyo Europa, già promotrice del report europeo “Il futuro dell’Anticoagulazione”.

Nel nostro Paese, dei 200mila casi di ictus mediamente stimati ogni anno, circa 36mila sarebbero imputabili alla fibrillazione atriale, e si stima che nel corso della vita circa 1 persona su 3 affetta da FA vada incontro ad un ictus cerebrale. Nonostante le linee guida internazionali raccomandino l’utilizzo della terapia anticoagulante come prevenzione dell’ictus nei pazienti affetti da fibrillazione atriale, la percentuale dei soggetti a rischio di ictus nei quali questa viene prescritta è solo del 55%, ed ancora inferiore nei soggetti di età maggiore dei 75 anni. La gestione di questa patologia, per la sua elevata prevalenza nella popolazione anziana, per l’impatto che essa ha su morbilità e mortalità, nonché per le notevoli conseguenze socioeconomiche in relazione a cure, ricoveri ospedalieri e disabilità, assume grande rilevanza soprattutto nel contesto meridionale, dove si registra un forte trend di crescita dell’indice di vecchiaia (+ del 30%, rispetto al 5,2% del Nord-Ovest, al 7% del Centro e -1% del Nord-Est), e dove i piani di spending review inducono le Autorità Sanitarie a tagli sulla spesa corrente che quasi sempre penalizzano l’impiego dei nuovi farmaci, senza considerare il risparmio effettivo legato al loro impiego nel medio-lungo termine.

La disponibilità degli anticoagulanti orali diretti (DOAC), più maneggevoli e sicuri rispetto all’attuale profilassi terapeutica con gli antagonisti della vitamina K (AVK) come il warfarin, impatta significativamente sulla qualità di vita dei pazienti, e fornisce una risposta più efficace per la prevenzione dell’ictus, quantificabile in circa 11.000 casi evitabili all’anno, che corrisponderebbero a un risparmio per il Servizio Sanitario Nazionale di circa 230 milioni di euro l’anno, poiché se è vero che essi hanno costi iniziali più elevati (prezzo ex-factory di circa 66 euro mensili contro i poco più di 1 del warfarin), il loro utilizzo  eviterebbe i costi diretti di ospedalizzazioni e cure a seguito di ictus acuti, e quelli indiretti dei numerosi monitoraggi e follow-up, richiesti dall’attuale standard terapeutico.

 

Le difficoltà di accesso alle cure La prescrizione dei DOAC stenta però a decollare, per diversi ordini di ragioni che spaziano dalla mancata informazione ed educazione che tocca persino la classe medica, a meccanismi di natura economica e normativa: la falsa percezione che l’acido acetilsalicilico sia efficace, meno pericoloso e meno costoso degli anticoagulanti; la scarsa conoscenza e confidenza con «farmaci nuovi» che spinge a prediligere la prescrizione dei «vecchi anticoagulanti» come il warfarin; il complicato accesso alla nuova classe di farmaci, a causa dei tortuosi percorsi che il paziente deve affrontare per accedere alla terapia e alla complessa compilazione online dei piani terapeutici AIFA per la rimborsabilità,  che spesso viene vissuto dai clinici come un vero e proprio deterrente alla prescrizione e ne scoraggia l’impiego appropriato su fasce di pazienti più ampie; la limitata autorizzazione alla prescrizione riservata solo ad alcune categorie di medici e specialisti, con l’aggiunta di ulteriori limitazioni nelle singole regioni e ASL, soprattutto meridionali, che hanno recepito le disposizioni AIFA in maniera difforme.

Il Sud fanalino di coda nelle cure per la fibrillazione atriale

Nel meridione sono circa 170 mila i pazienti ad alto rischio che non ricevono la prescrizione di una cura adeguata, pari a circa un caso su due. Al Nord e al Centro Italia, invece, i malati ricevono la terapia più adatta nel 60% dei casi e la maggioranza la segue per il tempo necessario e senza fare errori: l’aderenza alle cure arriva al 78% al Nord e al Centro, mentre si ferma al 60% al Sud dove i pazienti, rispetto al resto d’Italia, ricevono meno anticoagulanti orali e più antipiastrinici (fino a un terzo dei casi), che risultano assolutamente inefficaci a prevenire le complicanze di questa aritmia.

La quota dei pazienti trattati risulta fortemente difforme sia tra le varie regioni italiane, con un valore massimo del 52,5% in Veneto, ed uno minimo del 22,9% in Sicilia, sia all’interno di una stessa regione, come nel caso della Campania, che mostra una forte variabilità fra le varie ASL e i diversi distretti. A livello di ASL si passa dall’11,0% (Sicilia) al 62,5% (Friuli Venezia Giulia). Le Regioni meridionali hanno un tasso di trattamento del 39,3%, inferiore di 4,4 punti percentuali rispetto alla media nazionale. Anche il ricorso ai DOAC risulta fortemente difforme, pur essendosi quadruplicato fra il 2014 (9,3%) e il 2015 (36,4%). Il problema più significativo rimane però la profilassi dei pazienti a maggior rischio di ictus. I livelli sono ancora lontani dai target ottimali, con una media nazionale giunta al 43,7%, ma ferma al 39,3% nelle Regioni meridionali, dove rimangono sotto il 40% 4 Regioni su 8. Rispetto al 2014, si osserva una netta crescita della copertura ma non una riduzione significativa della variabilità regionale, che rimane molto elevata, con quasi 30 punti percentuali di differenza fra la regione con la maggiore e quella con la minore quota di trattati: rimangono quindi problemi di accesso rilevanti in determinate aree geografiche.

Le azioni necessarie

La rimozione di queste barriere, insieme ad un’efficace azione di sensibilizzazione sulla reale portata epidemiologica e prognostica della FA, può comportare un significativo risparmio per i Sistemi Sanitari Regionali.  Infatti risulta chiara ancora la scarsa consapevolezza, di gran parte dei pazienti e di alcuni medici, dell’elevato rischio di ictus connesso alla FA e la sottodiagnosi della patologia dovuta anche alle caratteristiche di questa aritmia, che può essere asintomatica, soprattutto negli anziani. Il documento prodotto dal tavolo interdisciplinare, oltre ad una puntuale analisi dello stato dell’arte dell’anticoagulazione in Italia, propone  alcune azioni specifiche per migliorare la gestione del paziente con FA, da attuare soprattutto nelle regioni meridionali: campagne di screening mirate alla sensibilizzazione della popolazione; definizione di percorsi formativi per potenziare l’appropriatezza terapeutica, eliminando il gap di conoscenza e informazione tra prescrittori autorizzati e Medici di medicina generale ; sviluppo di modelli di reti hub-spoke delle stroke unit; definizione di Nuovi Modelli gestionali per il follow-up dei pazienti in terapia anticoagulante che passano da VKA a DOAC; coinvolgimento dei cittadini e delle Associazioni Pazienti e, infine, una regia nazionale che dia indicazioni precise e omogenee su tutto il territorio nazionale, per evitare che l’eccessiva frammentazione in specifiche direttive a livello regionale incida negativamente sul tema dell’equità di accesso alle cure e sull’appropriatezza terapeutica.

“La prima necessità è quella di garantire, a tutti i pazienti italiani, quell’uguaglianza nell’accesso alle cure e soprattutto alle nuove terapie, che oggi di fatto ancora non c’è. Ci siamo riuniti per dare il nostro contributo a questo obiettivo ambizioso ma possibile, e auspico che il nostro tavolo multidisciplinare resti attivo fino al raggiungimento di una piena uniformità, sia tra nord e sud, che all’interno delle singole regioni, dove le indicazioni  terapeutiche spesso sono difformi nelle varie Asl e distretti” ha spiegato il coordinatore di questa iniziativa, Francesco Perticone, PO di Medicina Interna presso l’Università di Magna Grecia di Catanzaro e Presidente della SIMI, ” Poiché, solo quando il trattamento dei pazienti sarà uniforme in tutta Italia, si potranno utilizzare nel modo migliore le risorse e garantire una reale appropriatezza terapeutica. E ciò sarà di beneficio non solo alla qualità di vita dei pazienti ma anche all’intero sistema sanitario nazionale, che potrà contare su un cospicuo risparmio sui costi gestionali“.