Vai al contenuto

Ecco il “paradosso” italiano: nonostante i pessimi stili di vita della popolazione ancora buona la salute degli italiani

Nel decennale di Osservasalute, italiani più longevi, ma lo Stivale è sempre più anziano e appesantito da crisi economica, chili di troppo e sedentarietà. La salute degli abitanti del Belpaese sembra per molti aspetti migliorare nonostante la crisi e i cattivi stili di vita adottati, comportamenti dannosi come sedentarietà e consumo smodato di alcolici: è questo il “paradosso degli italiani”, evidenziato anche dal trend in aumento della speranza di vita (dal 2007 al 2011 i maschi hanno guadagnato 0,7 anni e le femmine 0,5 anni), in particolare per gli uomini che riducono la distanza rispetto alle donne (trend in atto dal 1979). Continua la diminuzione del rischio di morte per le malattie circolatorie (2007-2009: la diminuzione maggiore si riscontra per entrambi i generi nella classe di età 19-64 anni, -4,65% per gli uomini e -8,46% per le donne), tumori (2007-2009: la classe di età dove la riduzione è maggiore è 65-74anni, -6,97% per gli uomini e -8,71% per le donne), apparato digerente (2007-2009: la riduzione maggiore si riscontra per entrambi i generi nella classe di età 19-64 anni con -4,03% per gli uomini e -8,62% per le donne)e respiratorio (2007-2009: la diminuzione maggiore tra gli uomini si riscontra nella classe di età 65-74 anni e nelle donne nella classe di età over-75 anni con valori, rispettivamente, di -3,55% e -0,55%).

Riguardo agli stili di vita, emerge un quadro in chiaro scuro: da un lato, aumentano coloro che non consumano alcolici (+3,3 punti percentuali dal 2008 al 2010) e diminuiscono i fumatori (nel 2010 fumava il 22,8% degli over-14 nel 2011 è il 22,3%), dall’altro aumentano le persone in sovrappeso e obese (dal 2002 al 2011 le persone in sovrappeso aumentano del 6,9% e quelle obese del 17,6%; nel 2011 sono rispettivamente il 35,8% e il 10% della popolazione) e i giovani che adottano comportamenti a rischio. Un fenomeno emergente negli ultimi anni nel nostro Paese è rappresentato dall’avvio precoce al consumo di alcol e dal “binge drinking” e dal consumo di alcol fuori pasto. Il dato che desta maggiore preoccupazione è quello relativo al progressivo e costante abbassamento dell’età media di avvio all’uso dell’alcol (11-12 anni, la più bassa in Europa) e il riscontro di oltre 300 mila minori di 11-15 anni di età che usano l’alcol secondo modalità rischiose e fonte di danni per la salute.Aumentano anche le fasce di popolazione a rischio, a causa del noto processo d’invecchiamento (dal 2002 al 2011 si registra un aumento del 4,7% degli anziani tra 65-74 anni e del 28,7% per gli over-75) e della presenza di una discreta quota di popolazione straniera immigrata (gli stranieri residenti in Italia sono oltre 4,5 milioni pari al 7,5% del totale dei residenti).Aumenta anche, con la complicità dell’attuale fase di complessità sociale ed economica, la sofferenza mentale degli italiani, che ricorrono sempre più di frequente al farmaco per “sedare” angosce e disagi sempre più spesso confusi con un franco disturbo depressivo: anche quest’anno prosegue, infatti, il trend di aumento del consumo di farmaci antidepressivi, come già visto nel precedente Rapporto. Il volume prescrittivo dei farmaci antidepressivi mostra un continuo aumento negli ultimi 10 anni: nel 2011 il consumo (in DDD/1000 ab die) di farmaci antidepressivi è di 36,1, contro un consumo di 8,18 nel 2000. Il trend dell’utilizzo dei farmaci antidepressivi difficilmente vedrà un’inversione di tendenza.

 “Ma non solo la popolazione è a rischio – avverte il professor Walter Ricciardi – il pericolo investe anche la tenuta dello stesso Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Infatti, per quanto il Ssn stia lentamente migliorando la sua efficienza economica, anche in risposta alle sempre più pressanti richieste di razionalizzazione e più di recente alla spending review, il rischio è che all’aumento dell’efficienza non corrisponda un aumento di efficacia delle cure e quindi un miglioramento degli esiti delle stesse. La ricerca di efficienza, attuata con tagli all’offerta, in prospettiva, potrebbe comportare dei rischi per quanto riguarda l’accessibilità alle cure e di conseguenza l’efficacia del sistema nel produrre salute”.

“Un dato positivo è che diminuisce la mortalità evitabile, ovvero i decessi imputabili a errori o inapproprietezze delle cure prestate dal Ssn. Nel periodo considerato nel Rapporto, tra 2006 e 2009, si è assistito a una lieve riduzione del tasso di mortalità riconducibile ai servizi sanitari: si è passati, difatti, dal 63,86 (per 100.000) del 2006 al 61,69 (per 100.000) del 2009. Queste cause di morte riguardano soprattutto gli uomini” – prosegue il professore. “Le Regioni che sul fronte della mortalità evitabile presentano la peggiore performance in tutti gli anni considerati sono Calabria (dove si è passati dal 69,95 per 100.000 del 2006 al 69,13 del 2009), Campania (dove si è passati dal 77,49 per 100.000 del 2006 al 75,68 – valore peggiore in Italia – del 2009) e Sicilia (dove si è passati dal 73,36 per 100.000 al 75,32 del 2009)”. 

È questa in estrema sintesi la situazione che emerge dalla decima edizione del Rapporto Osservasalute (2012), un’approfondita analisi dello stato di salute della popolazione e della qualità dell’assistenza sanitaria nelle Regioni italiane presentata oggi a Roma all’Università Cattolica. Pubblicato dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane che ha sede presso l’Università Cattolica di Roma e coordinato dal Professor Walter Ricciardi, direttore del Dipartimento di Sanità Pubblica del Policlinico Gemelli di Roma. Il Rapporto è frutto del lavoro di 184 esperti di sanità pubblica, clinici, demografi, epidemiologi, matematici, statistici ed economisti, distribuiti su tutto il territorio italiano, che operano presso Università e numerose istituzioni pubbliche nazionali, regionali e aziendali (Ministero della Salute, Istat, Istituto Superiore di Sanità, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto Nazionale Tumori, Istituto Italiano di Medicina Sociale, Agenzia Italiana del Farmaco, Aziende Ospedaliere e Aziende Sanitarie, Osservatori Epidemiologici Regionali, Agenzie Regionali e Provinciali di Sanità Pubblica, Assessorati Regionali e Provinciali alla Salute).Giunto alla sua decima edizione, ora più che mai il Rapporto Osservasalute fotografa la condizione di salute degli italiani e quella del Ssn in un contesto di profonda crisi economica e di crescente incertezza per il futuro. Tali condizioni potrebbero produrre gravi conseguenze sulla salute dei cittadini, come già accaduto in altri paesi europei in profonda sofferenza come Grecia, Spagna e Portogallo, anche in considerazione dei ripetuti interventi di contenimento della spesa sanitaria attuati negli ultimi anni. Infatti negli ultimi anni il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale è cresciuto con un ritmo decisamente inferiore a quello del passato (nel 2012 +0,8 rispetto al 2011 contro una crescita del +3,4% del 2009, +2% del 2010, +1,3% del 2011). In prospettiva le Regioni stimano che gli interventi del Governo Centrale causeranno una riduzione del finanziamento, un aumento dei tagli alla spesa delle entrate da ticket per un valore complessivo di 8 miliardi a partire dal 2013 fino ad arrivare a 11 miliardi nel 2015.

In più, sempre nel 2012, si è assistito a una sensibile riduzione delle strutture e dei posti letto negli ospedali (da circa 270 mila del 2004 a circa 251 mila del 2010).

“L’attuale quadro di sofferenza economica che il nostro Paese sta vivendo minaccia di compromettere i progressi fatti nel corso degli anni in tutte le dimensioni del benessere della popolazione – dichiara il dottor Alessandro Solipaca, Segretario scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane dell’Università Cattolica di Roma – e le misure di austerità programmate per far fronte alla crisi, a livello centrale e locale, introducono pesanti tagli alla spesa pubblica, in particolare alla spesa sanitaria e socio-sanitaria, minando la già precaria sostenibilità del settore. I tagli previsti potrebbero diminuire i livelli di tutela del sistema, indebolendo la sua funzionalità proprio in un periodo di recessione economica. Lo scenario prospettato si inserisce in una realtà italiana già caratterizzata da evidenti svantaggi, sia in termini di salute che di accessibilità alle cure mediche delle fasce di popolazione di livello socio-economico più basso e di forti sperequazioni territoriali che, specie per le cosiddette ‘Regioni in Piano di Rientro’, rappresentano una costante già da prima del 2008, anno in cui la crisi economica ha cominciato a sortire i suoi effetti negativi”.

 ECCO L’ITALIA FOTOGRAFATA DAL RAPPORTO

 Continua la crescita della popolazione, ma non grazie alle nascite – Anche quest’anno i risultati del Rapporto danno conferma delle tendenze emerse negli anni scorsi: si riscontra un tendenziale aumento della popolazione residente in Italia imputabile, sostanzialmente, alla componente migratoria. Il saldo medio annuo è in questa edizione del Rapporto pari a 4,2 per 1.000 mentre nella precedente edizione era 4,8 per 1.000. Le Regioni che non crescono (saldo totale negativo) sono solamente tre: Basilicata (-2,5 per 1.000), Molise (-0,6 per 1.000) e Liguria (-0,1 per 1.000); anche in questa edizione del Rapporto si riscontra un saldo naturale medio (relativo al biennio 2010-2011) che si mantiene pressoché costante rispetto al biennio precedente e si attesta su livelli ancora di segno negativo, anche se, per alcune Regioni, è prossimo allo 0; invece il saldo migratorio è positivo grazie, soprattutto, alla capacità attrattiva delle regioni del Centro-Nord.

Anche il movimento migratorio interno al Paese ha confermato i trend già evidenziati negli anni precedenti, ovvero il movimento in uscita dalle regioni meridionali (escluso l’Abruzzo).

Le regioni più “abbandonate” dai propri cittadini e meno attrattive verso quelli di altre regioni sono Basilicata, Calabria e Campania che hanno un saldo migratorio negativo molto elevato (rispettivamente, -3‰, -3,3‰, -3,4‰). Le realtà territoriali che maggiormente hanno beneficiato di tali spostamenti sono state la PA di Trento (+2,9‰), l’Emilia-Romagna (+2‰), la Toscana (+1,5‰), il Friuli Venezia Giulia (+1,4‰) e il Lazio (+1,4‰).

 La fecondità subisce una lieve flessione – Scompare quella sia pur flebile speranza di crescita riscontrata nelle precedenti edizioni del Rapporto: il tasso di fecondità totale (Tft) è passato, infatti, da 1,42 del 2008 a 1,41 del 2009 e nel 2011 è pari a 1,39. Si arresta quindi il sia pur minimo processo di ripresa dei livelli di fecondità che era iniziato a partire dal 1995 quando il Tft raggiunse il suo valore minimo di 1,2 figli per donna.

Il Tft resta inferiore al livello di sostituzione (ossia 2,1 figli per donna, che garantirebbe il ricambio generazionale).I valori più alti si registrano anche quest’anno nelle PA di Trento e Bolzano e in Valle d’Aosta, dove tale indicatore è prossimo a 1,6 figli per donna.Seguono, a breve distanza, la Lombardia (1,48), l’Emilia Romagna (1,46), il Veneto (1,44), il Lazio (1,41), il Piemonte (1,4), le Marche (1,39). Le regioni dove si registra un Tft particolarmente basso (ossia inferiore a 1,2 figli per donna in età feconda) sono nel Sud (Sardegna con 1,14, Molise con 1,16 e Basilicata con 1,17). La fecondità delle donne straniere (2,04), è circa il 50% in più di quella delle donne italiane (1,39).

 Italia sempre più vecchia, un peso crescente per la sanità – Anche il Rapporto 2012 mostra la tendenza incessante all’invecchiamento della popolazione italiana, la quota dei giovani sul totale della popolazione è, difatti, contenuta, mentre il peso della popolazione “anziana” (65-74 anni) e “molto anziana” (75 anni e oltre) è consistente.

Nel 2011 la popolazione in età 65-74 anni rappresenta il 10,2% del totale, e quella dai 75 anni in su il 10,1%. Significa che un italiano su dieci ha più di 65. Si confermano Regione più vecchia la Liguria (gli anziani di 65-74 anni sono il 12,7% della popolazione; gli over-75 il 14%), Regione più giovane la Campania (65-74 anni sono l’8,3% della popolazione; over-75 il 7,8%).

Sempre di più anziani che vivono soli: come lo scorso anno a livello nazionale oltre un anziano su quattro (28,1% della popolazione con 65 anni ed oltre nel 2010) vive da solo. È in Valle d’Aosta che tale percentuale raggiunge il suo valore massimo (33,6%). Il valore più contenuto si registra nelle Marche (22,9%), seguono Umbria (23,9%), Campania (25,5%), Abruzzo (25,8%) e Veneto (26,1%).

Solo il 15,1% (come nel 2009) degli uomini di 65 anni e oltre vive solo, mentre tale percentuale è decisamente più elevata, pari al 37,6% (38% nel 2009) per le femmine. Sia la differenza di età fra i coniugi, sia la maggiore mortalità maschile rende le donne più a rischio di sperimentare l’evento vedovanza e, quindi, di vivere sole nell’ultima parte della propria vita.

Italiani sempre più istruiti, dovrebbero avere gli strumenti conoscitivi per proteggere la propria salute – Quest’anno il Rapporto prende in esame quanto sono istruiti gli italiani: il livello d’istruzione della popolazione è un dato importante perché a titoli di studio più elevati corrispondono in media condizioni socio-economiche migliori e una più frequente adozione di stili di vita salutari. Nel periodo 2004-2011 si è assistito a un aumento relativo della quota di popolazione con titoli di studio più elevati. Questo è dovuto, soprattutto, al progressivo estinguersi delle generazioni più anziane e meno istruite. In particolare, la quota di popolazione che ha conseguito al massimo la licenza elementare passa, nel periodo considerato, dal 29% al 22%. Al contrario, il peso della popolazione che ha conseguito il diploma di scuola media superiore aumenta nel tempo passando dal 26% al 29%. A livello nazionale, il 13,4% della popolazione maschile di 25-64 anni ha conseguito la laurea o un titolo superiore contro il 16,4% della controparte femminile. Ci sono più laureati nelle regioni del Centro (nel Lazio ha conseguito la laurea il 18,2% degli uomini e il 20,4% delle donne) e in alcune regioni del Nord, mentre è inferiore al valore nazionale nelle regioni del Mezzogiorno, escluso l’Abruzzo per entrambi i generi e Molise per le donne. La Regione con meno laureati tra i maschi è la Sardegna (10,6%), quella con meno laureati tra le donne è la Puglia (12,4%). A livello nazionale, il 34% degli uomini ha conseguito un diploma di scuola secondaria superiore, mentre per il collettivo femminile tale percentuale è pari al 33,3%. Infine la metà della popolazione residente con un’età compresa tra 25-64 anni ha conseguito al massimo un diploma di 2-3 anni (qualifica professionale): questa percentuale era pari al 52,6% per gli uomini e al 50,2% per le donne.

Si noti che, secondo uno studio pubblicato con il Rapporto Osservasalute 2010, nella popolazione con livello di istruzione non superiore alla licenza elementare il rischio di soffrire di una o più malattie croniche è, per gli uomini, circa un quarto più elevato di quello di coloro che hanno almeno il diploma superiore, per le donne il 30% in più.

 

 Migliora la speranza di vita – Al 2011, stando ai dati provvisori, la speranza di vita alla nascita e pari a 84,5 anni per le donne e a 79,4 anni per gli uomini. Procede, quindi, l’andamento più favorevole per gli uomini negli ultimi anni.

Si continua a erodere il vantaggio delle donne rispetto agli uomini: nel 2006 il vantaggio femminile alla nascita era di 5,6 anni, si riduce a 5,1 anni nel 2011 continuando una tendenza che si è instaurata dal 1979, quando il vantaggio di sopravvivenza delle donne raggiunse il suo massimo, 6,8 anni in più rispetto agli uomini.

Per la prima volta negli ultimi anni la PA di Bolzano (80,5 anni), relativamente agli uomini, strappa il titolo di area geografica a maggiore longevità alla Regione Marche (la speranza di vita alla nascita nelle Marche è per i maschi pari a 80,3 anni) che lo deteneva da tempo. Anche per le donne è la PA di Bolzano (85,8 anni) quella con la sopravvivenza media più elevata. È ancora la Campania, invece, la Regione dove la speranza di vita alla nascita è più bassa, tanto per gli uomini (77,7) quanto per le donne (83).

 Sempre meno morti, soprattutto tra i maschi – Il dato di mortalità registrato nel 2009, rispecchiando quanto descritto per la sopravvivenza, conferma il trend visto negli ultimi anni: un sensibile miglioramento per gli uomini (il tasso standardizzato di mortalità scende di 2 punti percentuali circa passando da 111,85 per 10.000 del 2007 a 109,91 per 10.000 nel 2009) e una situazione pressoché stabile per le donne rispetto a due anni prima (69,44 per 10.000 nel 2007 e 69,31 per 10.000 nel 2009).

Per entrambi i generi e fino ai 74 anni, ma con un’intensità generalmente maggiore per gli uomini rispetto alle donne, nel triennio 2007-2009 è continuato il calo dei rischi di morte per le malattie del sistema circolatorio, dei tumori, delle malattie dell’apparato digerente e del sistema respiratorio. Oltre i 75 anni, l’evoluzione della mortalità nei due generi si differenzia e, per la prima volta, si osserva un lieve aumento dei tassi per le donne: +0,5% contro -0,8% degli uomini.