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ADHD: la necessità di percorsi diagnostico-terapeutici condivisi

Il Progetto attivato recentemente dalla Lombardia per la presa in carico dei bambini affetti da ADHD – Attention Deficit Hyperactivity Disorder potrebbe diventare un modello per tutta le altre Regioni italiane. La creazione di una rete di servizi di neuropsichiatria infantile per l’ADHD, infatti, che permette ai 18 Centri regionali lombardi accreditati per la cura di questo disturbo di condividere in modo omogeneo percorsi diagnostici, programmi di formazione e di approfondimento, approcci terapeutici e di supporto alle famiglie dei pazienti è un passo molto importante che potrebbe essere di esempio anche per altre patologie neuropsichiatriche infantili.

Nonostante questi segnali positivi restano, tuttavia, ancora molti nodi irrisolti nella presa in carico dei bambini affetti da ADHD. Ad iniziare da un problema di discrepanza, che interessa il nostro Paese, tra casi “attesi” e casi realmente diagnosticati (su 75.000 casi potenziali, solo 3.000 ricevono una diagnosi). Una corretta e tempestiva diagnosi, infatti, permetterebbe un puntuale ed adeguato trattamento, evitando di esporre chi ne è affetto a complicanze nell’adolescenza e nell’età adulta quali difficoltà scolastiche, esordi di disturbo bipolare, grave disadattamento sociale e relazionale, fino ad arrivare a problemi di alcolismo o tossicodipendenza. Permangono, poi, gravi carenze nel sostegno e nel supporto alle famiglie e agli insegnanti (i due pilastri fondamentali coinvolti, oltre agli specialisti, nella cura dei bambini ADHD) per accrescere la conoscenza e la consapevolezza di questo disturbo, fornendo loro gli strumenti atti a contrastarlo.

Questi in sintesi gli elementi emersi in occasione dell’incontro dal titolo: “ADHD: La necessità di percorsi diagnostico-terapeutici condivisi” organizzato da About Pharma con il supporto non condizionato di Shire, tenutosi oggi a Milano, cui hanno partecipato Claudio Mencacci, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze, A.O. Fatebenefratelli di Milano, Alberto Ottolini, Direttore dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza sempre del Fatebenefratelli, Massimo Molteni, Direttore Sanitario IRCSS Eugenio Medea, Associazione La Nostra Famiglia di Bosisio Parini, Vittorio Lodolo D’Oria, Esperto di Stress Lavoro Correlato negli Insegnanti e Lucia Cento, Pedagogista e collaboratrice AIFA – Associazione Italiana Famiglie ADHD.

L’ADHD è un disturbo neurobiologico ad esordio in età evolutiva caratterizzato da disattenzione, impulsività e iperattività motoria, che si manifesta come alterazione nell’elaborazione delle risposte agli stimoli ambientali. Può presentarsi dall’età prescolare a quella adulta, coinvolgendo e compromettendo numerose tappe dello sviluppo e dell’integrazione sociale del bambino o dell’adolescente. Se la diagnosi corretta della sindrome viene effettuata precocemente ed il bambino viene indirizzato verso terapie adeguate i risultati sono, di solito, soddisfacenti e, soprattutto, si riesce a prevenire un’evoluzione destinata a complicarsi nell’adolescenza.

“Siamo di fronte a una patologia per la quale non sono a disposizione marker biologici diagnostici. Per questo la diagnosi dovrà essere necessariamente di tipo “clinico” – ha dichiarato il Dottor Alberto Ottolini, Direttore dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Fatebenefratelli di Milano – Per questo motivo risulta assai importante utilizzare strumenti di tipo standardizzato, “condivisi”, seguendo quelle che sono le Linee Guida definite dalla Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile. Negli anni – continua Ottolini – sono stati compiuti numerosi progressi per definire i criteri di un approccio terapeutico appropriato nei confronti dell’ADHD. Come, ad esempio, l’istituzione del Registro Nazionale, voluto dal Ministero della Salute per monitorare e regolamentare la corretta prassi dei trattamenti farmacologici. L’attivazione, poi, del recente Progetto ‘Condivisione di percorsi diagnostico-terapeutici per l’ADHD in Lombardia’ finanziato dalla stessa Regione che ha previsto, tra l’altro, la creazione del Registro Regionale dell’ADHD con l’obiettivo di raccogliere dati di rilievo epidemiologico, monitorare e valutare il percorso assistenziale del bambino nel suo complesso, sta segnando un percorso virtuoso per rispondere alle necessità dei bambini affetti da questo disturbo e delle loro famiglie”.

“Partendo dal presupposto che la diagnosi di ADHD debba essere effettuata da operatori della salute mentale dell’età evolutiva e coinvolgere, sin dall’inizio, oltre al bambino, i suoi genitori, gli insegnanti e il pediatra di famiglia; – afferma Massimo Molteni, Direttore Sanitario IRCSS Eugenio Medea, Associazione La Nostra Famiglia di Bosisio Parini – che il programma di trattamento debba essere fondato su specifici percorsi di training rivolti a genitori ed insegnanti, oltre a interventi psicologici diretti sul bambino, quando possibile; che la terapia con farmaci debba essere intrapresa solo se indicata da un neuropsichiatra infantile, in accordo con le evidenze scientifiche riconosciute dalla comunità internazionale all’interno di un percorso di intervento multimodale, si comprende come risulti fondamentale una rete stabile di confronto tra i Centri di riferimento per garantire una diagnosi che valuti in modo accurato il disturbo e per fornire un intervento adeguato al bambino malato e alla sua famiglia, garantendo la formazione e l’aggiornamento del personale sanitario coinvolto”.

Ogni intervento terapeutico va adeguato alle caratteristiche del soggetto in base all’età, alla gravità dei sintomi, ai disturbi secondari, alla situazione familiare e sociale e deve essere inquadrato nell’ambito di un approccio “multimodale”, ovvero una terapia cognitivo comportamentale e/o psicologica, cui può essere associato un trattamento farmacologico (gli psicostimolanti sono i farmaci di prima scelta), quando strettamente necessario. Quest’ultimo, come abbiamo visto, deve essere intrapreso solo se indicato da un neuropsichiatra infantile. Dal momento che la scuola è spesso il luogo in cui le “sfide” poste dai bambini affetti da ADHD vengono raccolte per la prima volta, il ruolo congiunto di genitori e insegnanti diviene cruciale.

“Il 4% della popolazione scolastica ha diagnosi di ADHD – dichiara la dottoressa Lucia Cento, Pedagogista e collaboratrice AIFA, Associazione Italiana Famiglie ADHD – per fare in modo che questi alunni possano avere un’esperienza formativa soddisfacente è necessario attuare programmi all’interno della classe con l’obiettivo di modificare i loro comportamenti dirompenti o la loro disattenzione. Perché ciò sia possibile gli insegnanti dovrebbero attenersi ad una serie di indicazioni date dagli specialisti e/o dal terapista del bambino. Le indicazioni in questione sono basate su una serie di osservazioni e di successivi interventi sistematici. Per fare ciò – continua la Dottoressa Cento – è necessaria una stretta collaborazione tra terapista, insegnate e famiglia grazie alla quale si riesce a migliorare la qualità della vita sociale del bambino e a ristabilire la relazione insegnante/bambino, bambino/genitore, genitore/insegnante. Se si riesce a creare questa sinergia e a impostare un lavoro sistematico, che presupponga una profonda conoscenza della natura neurobiologica del disturbo, si ottengono buoni risultati e riduzione significativa dei sintomi”.Purtroppo, però, la categoria degli educatori lamenta uno scarso supporto specialistico adeguato per sostenere con strumenti appropriati la presenza in aula di studenti affetti da ADHD, a fronte della totale assenza di un ausilio istituzionale, mettendo seriamente a rischio la propria stessa salute.

Una recente ricerca dei sindacati della scuola dei Paesi europei riconosce che l’insegnamento è tra le occupazioni a più alto rischio per la salute mentale, e tra i cinque principali motivi di stress da lavoro, viene incluso dai docenti il comportamento inaccettabile degli alunni.

“In un recentissimo studio italiano su 600 insegnanti di 4 regioni del Centro-Nord Italia da me condotto sull’argomento dello stress lavoro correlato – dichiara Vittorio Lodolo D’Oria, Esperto di Stress Lavoro Correlato negli Insegnanti – emerge chiaramente come il disturbo del comportamento e della condotta costituisca una delle maggiori difficoltà per un docente nella gestione della classe. Il 63% del campione, infatti, dichiara di avere nella propria classe bambini con deficit di vario tipo. Il 96% afferma di non ricevere alcun supporto istituzionale adeguato, pur avendone bisogno, e sempre il 96% sostiene che la presenza in classe di un bambino iperattivo costituisce un importante elemento addizionale di usura psicofisica per l’insegnante stesso.”

“Per agire efficacemente sulle potenzialità dell’insegnante – continua Lodolo D’Oria – occorre, dunque, attuare una formazione sullo Stress Lavoro Correlato, le sue componenti e le corrette modalità per affrontarne i fattori di rischio. Far, quindi, apprendere ai docenti dinamiche e tecniche relazionali adeguate per interagire efficacemente con gli alunni problematici (ADHD) e le loro famiglie, abbattendo così, contestualmente il problema. Questo fabbisogno formativo è avvertito in maniera pressante da oltre il 90% del campione di docenti intervistati”.

Se l’ADHD è un disturbo frequentemente diagnosticato nell’infanzia e nell’adolescenza, il suo impatto sull’adulto è sottovalutato e relativamente poco studiato, sebbene sia ormai ben dimostrato come tale quadro clinico si protragga ben oltre l’età dello sviluppo e sia causa di notevole disfunzione sociale e lavorativa, perché molto spesso non riconosciuto o erroneamente attribuito ad un altro disturbo.

“La maggior parte dei soggetti adulti con ADHD che si presenta allo specialista psichiatra – afferma il Professor Claudio Mencacci, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze, A.O. Fatebenefratelli di Milano – ha un altro disturbo associato, che può mascherarne la presenza. Infatti, oltre ad altre patologie quali disturbi d’ansia o disturbo bipolare, sono di frequente osservazione l’abuso multiplo di sostanze e le condotte antisociali, che andrebbero, quindi, valutate all’interno di una cornice più ampia, in modo da ottimizzare il trattamento utilizzando tutte le terapie disponibili, partendo da un’adeguata e completa psico-educazione del paziente, fino ad arrivare a tecniche più complesse di terapia cognitivo-comportamentale e alla farmacoterapia”.